Ogni artista è creatore di uomini, non foss’altro che di se stesso. Ad alcuni di essi, però, è stata concessa la facoltà di creare dei mondi. […] Dickens è uno dei più insigni creatori di mondi. E il suo mondo è uno dei più singolari: di esso conosciamo ogni campo, ogni strada, ogni volto. Eppure dobbiamo ogni volta dire a noi stessi che non abbiamo mai incontrato alcunché di simile: forse li rivedremo se saremo buoni e andremo in Paradiso. Il regno di Dickens è il realismo magico. Regno di infinita attrattiva, regno difficilissimo da governare. Kafka soltanto ne ha avuto uno simile; ma il riso di Dickens rende il suo più bello.
A giudicare dai molti cassetti e cassettini esistenti nel suo negozio, avrei reputato il signor Pumblechook un uomo molto felice, e mi stupii quando, guardando furtivamente in uno o due dei piani più bassi degli scaffali, e vedendo che c’erano tanti pacchettini di carta marrone, già pronti e legati, mi chiesi con stupore se i semi dei fiori e i bulbi non attendessero una bella giornata di sole per evadere e fiorire.
In una poltrona, con un gomito appoggiato alla tavola e con la testa posata sulla mano sedeva la più straordinaria donna che io avessi mai visto, e cha mi rivedrò. Era vestita di un ricco abito: raso, merletti, sete: tutto in bianco. Anche le scarpe erano bianche. E un lungo velo ornato di fiori nuziali le scendeva dai capelli che pure erano bianchi. Sembrava non avesse ancora finito di vestirsi perché portava una sola scarpa, l’altra era posata sulla tavola vicino alla sua mano; e il velo era aggiustato solo a metà sulla testa; l’orologio e la catena non erano ancora stati messi,; e alcuni pizzi per il seno erano ammucchiati in disordine sul tavolo con i gioielli, con il fazzoletto, con i guanti, con i fiori e con un libro di preghiere.
Il metodo con cui mia sorella mi aveva allevato, mi aveva reso sensibile. Nel piccolo mondo in cui tutti i bambini, comunque vengano educati, vivono la loro vita, non c’è nulla di più sentito e avvertito dell’ingiustizia di poco conto; ma il bambino è piccolo e piccolo è il suo mondo, e il suo cavallo a dondolo è per lui molto più alto di lui, e lui lo vede e lo considera come un cavallo da caccia irlandese dalle ossa grosse. Fino dall mia più tenera fanciullezza avevo sempre dovuto sostenere nel mio intimo un eterno conflitto contro l’ingiustizia. Da quando avevo cominciato a parlare, avevo capito che a mia sorella, nella sua violenta e capricciosa coercizione, era ingiuista con me. Mi ero formato la profonda convinzione che il suo tirarmi su “per mano”, non le dava il diritto di tirarmi su a forza di percosse. Questa convinzione si era radicata in me attraverso tutti i castighi che mi erano stati inflitti, le pene, i digiuni, le veglie, e altri simili provvedimenti penitenziali. Continuando a rimuginare su questo pensiero, in solitudine e senza difesa, mi ero sempre più riunchiuso nell’attuale forma di timidezza, dalla quale conseguì la mia eccessiva sensibilità.
Qualunque fosse stata la mia sorte, non avrei mai potuto ricordare mia sorella con molta tenerezza. Ma suppongo che esista una sensazione violenta di rimpianto che può sussistere anche senza tenerezza.
Secondo la mia esperienza, l’opinione convenzionale di un innamorato non può essere sempre vera. La verità vera è che quando amai Estella con l’amore di un uomo, l’amai semplicemente perché la trovavo irresistibile. Sia detto una volta per tutte: ero dolorosamente edotto che molto spesso, se non sempre, l’amavo contro la ragione, contro ogni promessa, contro la pace, la speranza, la felicità, contro ogni delusione possibile. Una volta per tutte: non l’amavo pur sapendolo e sapendolo non avevo la forza di contenermi, più che se l’avessi creduta la perfezione umana.
Nel passarmi vicino, mi guardò con un aria di trionfo, come se gioisse delle mie mani grossolane e delle mie scarpe grosse; aprì il cancello e lo tenne aperto. Stavo uscendo, senza guardarla, quando mi toccò con la mano e mi disse come per rimproverarmi:“Perché non piangi?”“Perché non ne ho voglia”“E invece ne hai,” disse lei “hai pianto fino a ridurti mezzo cieco, e anche ora stai lì lì per piangere.”Poi si mise a ridere sprezzante, mi spinse fuori e chiuse il cancello alle mie spalle. Filai diritto dal signor Pumblechook e fui grandemente sollevato dal non trovarlo in casa. Quindi dopo aver lasciato detto al commesso in che giorno la signorina Havisham voleva che ritornassi da lei, mi misi in cammino attaccando le quattro miglia che mi separavano dalla nostra fucina, meditando lungo il cammino su quello che avevo visto, e ripetendomi che altro non ero che un volgarissimo figlio di operai, che le mie mani erano tozze, che le mie scarpe erano grosse, che avevo la deplorevole abitudine di chiamare i fanti jacks; che mi sentivo molto più ignorante di quanto non mi fossi sentito la sera prima e che, in linea generale, avevo l’aspetto di un miserabile essere appartenente a una classe inferiore.